giovedì 26 settembre 2013

Moedisia

Finalmente io e Sephira abbiamo un sito!
Dopo ben un anno dall'acquisto del dominio, ci siamo date da fare e abbiamo realizzato Moedisia.
Il perché del nome è presto detto, anche se non vi svelerò nulla: è il fulcro della nostra saga "I Mondi Dispersi" - inoltre ci sembra decisamente figo!
Lo abbiamo realizzato con iweb, un programma Apple davvero ignorante, ma versatile e comodo. Dopo aver deciso i contenuti, le pagine e le quattro cose basilari che un buon sito dovrebbe contenere, il difficile era renderlo appetibile agli occhi.
In soccorso ci è venuta la madre di Sephira, che quest'estate ci ha messo in contatto con Mihaela, talentuosa illustratrice croata.
Ci siamo innamorate subito del suo stile e dei suoi meravigliosi disegni. Mihaela ha una capacità di spaziare tra tecniche e contenuti non indifferente: non potevamo trovare spalla migliore per far prendere forma alle nostre idee e fantasie.
Quindi, ora che vi ho tediato a sufficienza, vi invito a venirci a trovare e a gironzolare per le nostre pagine.
Siamo ancora un po' poveri in contenuto - e presto aggiungeremo altro - ma l'essenziale c'è.
Troverete sempre il link nella colonna qui a destra del blog, e nel frattempo cliccate qui in basso!


Enjoy!

martedì 3 settembre 2013

Norvegia: on the road (2)

GIORNO VII – Trondheim
Di Kristyna ho già parlato. Abita al quinto piano di una palazzina rossa, nel quartiere studentesco. Ha una grande camera da letto e una sala da pranzo in comune con altri tre inquilini.
Beh, questa è la versione ufficiale.
In realtà, lei è ospite del proprio ragazzo, ma lui è in Repubblica Ceca. E il solo altro inquilino è, a sua volta, ospite di un'amica (assente ingiustificata). Si chiama Jakob, ha solo diciannove anni ed è arrivato in Norvegia dalla Slovacchia alla ricerca di un lavoro estivo, prima di iniziare l'università.
Il suo coraggio mi sorprende. Lui ammette di essere stato terrorizzato per gran parte del viaggio, e di esserlo tuttora. Eppure, la mattina si sveglia presto, prende la bicicletta e pedala fino al centro città, bussando alla porta di ogni ristorante del porto.
Oggi è stato assunto da un ristorante italiano. Come cuoco. In un ristorante italiano gestito da un russo – si sa che i russi sono strani. Ciò che rende il ristorante italiano è l'aggiunta di abbondante aceto balsamico sui panini. Insomma, ci credono davvero.
Mentre Jakob va a fare il suo giorno di prova (rinvigorito dai miei pancakes), io, Domcha e Kristyna ci prepariamo ad una gita sulle colline che sovrastano la città. La strada è asfaltata, larga e frequentata da famiglie di salutisti. Conduce fino a un lago e una grande baita in mezzo a una foresta. Lunghe chiacchierate in salita e in discesa, tra i norvegesi intenti a godersi una domenica di sole. Si gode di una bella vista sulla città, fino al mare. Kristyna ci racconta aneddoti da vera guida turistica, e per fare pratica ripete tutto anche in tedesco.
Torniamo a casa che è già passata da parecchio l'ora di pranzo. Ciononostante, mangiamo con calma, facciamo il bucato e la spesa. Siamo piacevolmente intontite dal repentino cambio di ritmo.
Non è solo l'avere a disposizione un bagno e un letto.
Questa Trondheim è come un'oasi. Siamo qui, in mezzo alla nazione, a metà del viaggio. Finalmente abbiamo il tempo di tornare con la mente a ciò che abbiamo visitato. Possiamo ricostruire ciò che abbiamo provato, confrontando i nostri ricordi. Le nostre storie iniziano ad accumularsi: Kristyna e Jakob ridono al momento giusto, sgranano gli occhi, ci seguono passo dopo passo. Ascoltano, raccontano a loro volta.
Siamo nel mezzo: il nodo di un intreccio di storie. Ovunque andiamo, germogliano racconti.
L'abitazione dista mezz'ora a piedi dal centro: in discesa, non pesano affatto.
Gamle Trondheim
Trondheim è bella. Non è solo la Cattedrale di Nidaros, dove ci è stato possibile entrare per seguire una messa protestante (piacevole musica d'organo), ma anche le vie ariose, le abitazioni, i parchi pieni di fiori e le piazze affollate.
Fiancata della cattedrale di Nidaros, Trondheim
Le note di un concerto rock ci accompagnano su antichi ponti, di fronte alla splendida Università e di nuovo a casa.
Qui incontriamo due amici di Jakob: Martin e Katarina. Improvvisiamo un barbecue nel giardino dello studentato; e quando cala il fresco della sera ci ritiriamo in casa per un tè.
Domcha impugna la chitarra e inizia a cantare. Cantiamo insieme tutta la notte. Cantiamo in tutte le lingue.
E prima di andare a dormire, facciamo un lungo brindisi all'ingresso della Croazia in Europa.
Mentre le luci si spengono, una alla volta, penso a quanti fili debbano essere stati tirati dal destino, perché noi ci potessimo incontrare sotto lo stesso tetto, a cantare così.


GIORNO VIII – Trondheim
In bicicletta! Lunghe discese con il vento in poppa (o era la prua?).
Causa piedi e gambe martoriate, unica soluzione è stata affidarsi alle due ruote. Quindi, voliamo a valle, io e la mia bicicletta.
Visito la fortezza che domina la città, bianca in mezzo all'erba verdissima, con i cannoni, la muraglia e una battaglia epica che la storia del continente non ha mai citato.


Mi perdo alla ricerca del centro storico e torno di fronte all'Università. Non sono preoccupata. Pedalo lungo il fiume e decido di provare il celebre “ascensore per biciclette” (riempiendomi di lividi nel tentativo).
I Norvegesi non riescono a essere pigri nemmeno se ci provano. Chiedete ai miei polpacci!
Attraverso il ponte vecchio, il porto, arrivo alla chiesa di Nostra Signora (Fraue qualcosa).
All'interno, oltre alla chiesa vera e propria, c'è una sorta di piccolo bar: il luogo è un centro di assistenza e recupero per tossicodipendenti, ma è davvero aperto a chiunque voglia entrare. A chiunque non abbia un posto dove trascorrere la notte.
Un assaggio di estate norvegese...
Dopo un veloce pranzo sulla strada, incontro nuovamente Domcha. Ci incamminiamo verso il Palazzo Arcivescovile, accanto alla Cattedrale di Nidaros. All'interno ci sono alcune mostre permanenti: reperti archeologici che documentano l'antica storia della città, resti dell'antica cattedrale (distrutta – come ogni città della Norvegia – da svariati incendi), ricostruzioni e statue. Poi, i gioielli della corona norvegese. Le corone di re, regina e principe ereditario, corredate da scettro e pomo. Ma soprattutto, sono esposte le loro custodie.
Non ci avete mai pensato, eh? Magari credevate che i reali andassero sempre in giro con la corona in testa. Invece, ora scoprite che esistono delle scatole in pelle, che sembrano quelle in cui i pasticceri mettono le torte, ad uopo. Perde un po' di poesia, vero?
Il ragazzo con tonaca che fa da guida abbandona il suo posto ai biglietti per farmi da guida. Si entusiasma nel raccontarmi la storia di Sant' Olav, che è protettore della Norvegia, e ne è stato il sovrano. Come potrebbe non appassionarmi la storia di un vichingo sanguinario proclamato santo, e a cui è dedicato un lungo pellegrinaggio in questa terra? Ascolto rapita una storia che parla di guerre, assassinii, colpi di stato, viaggi disperati, tombe scoperchiate e corpi trafugati.
All'uscita, guardo la Cattedrale di Nidaros con occhi nuovi. Frugo nelle tasche della mia giacca e trovo un piccolo cristallo di quarzo, che avevo raccolto sulla strada per Rondane.
Lo lascio in mezzo ai pochi fiori secchi che decorano la tomba del grande santo.
È stato anche lui un viaggiatore. Di sicuro saprà capire.
Lasciato il centro storico, inforco nuovamente la mia bicicletta e mi dirigo verso il mare.
Proprio lì accanto, è stata costruita un'enorme piscina. Oh, l'acqua calda! Invenzione mirabile (e, che io sappia, ancora senza brevetto). Muscoli e ferite guariscono in un attimo, anche se ce ne procuriamo di nuove sugli scivoli.
Fuori, l'aria è fredda e si è alzato il vento.
Questa volta devo spingere il mio potente mezzo, visto che vado in salita. A casa, però, mi attende la cena preparata proprio per noi da Jakob prima di andare al lavoro.
Nonostante la stanchezza, rimaniamo alzate ancora a lungo. Dobbiamo terminare i preparativi per il viaggio. Così, quando il nostro cuoco milionario (le paghe in Norvegia sono scandalosamente alte) torna a casa, siamo tutte e tre al tavolo della cucina.
Ancora una volta, ci ritroviamo a cantare e parlare fino a notte inoltrata.
Vorremmo restare più a lungo. Kristyna sente già la nostra mancanza – e, in qualche modo, anche noi sentiamo già la sua.
I nostri zaini sono sulla porta. I nostri cuori sono ancora qui, ma le scarpe all'ingresso scalpitano per affrontare nuove terre, nuovi mondi. È tutto pronto, e non ci sono più scuse.


GIORNO IX – Da Trondheim a Kristiansund
Lasciamo l'appartamento di Kristyna a metà mattina. Camminiamo fino a raggiungere uno degli ingressi dell'autostrada: non è un brutto posto per fare l'autostop. Ha tutti i requisiti: uno slargo abbastanza grande da permettere alle auto di fermarsi, buona visibilità, è una strada frequentata.
Io e Dom distiamo poco più di cinque metri; abbastanza da mostrare che siamo in due. Quando una macchina si ferma, tocca a me correre e chiedere se il conducente va nella nostra stessa direzione.
Ma aspettiamo oltre un'ora e mezza, tra macchine che accelerano, ragazzi che salutano e lo sguardo pieno di disprezzo di signore in Mercedes e BMW vuote.
Il cielo si copre, inizia a tirare un vento fastidioso e gelido. Trascorriamo un'altra ora a soli 8 km di distanza, all'incrocio della E6. Siamo depresse ed esasperate.
Cosa dobbiamo fare? Tornare in città? Restare dove siamo?
Intanto le auto ci corrono accanto, senza accennare a fermarsi. Autisti e passeggeri ci guardano con curiosità, ben nascosti dietro i finestrini dei loro mezzi. Non otterremo altro.
Ci dirigiamo alla fermata di uno degli autobus e discutiamo il da farsi. La cartina ci restituisce lo sguardo: sono passate già tre ore, e non ci siamo praticamente mosse!
Dominika è visibilmente irritata. Confessa che è la prima volta che le capita qualcosa di simile. Per quanto mi riguarda, è la prima volta in assoluto che viaggio in auto-stop. Non ho davvero idea di come funzioni, quando funziona. Beh, sicuramente non così.
Convinco la mia compagna a seguire i segni di una pista ciclabile. Camminiamo a lungo, fino a raggiungere la città vicina. All'arrivo a Heidal siamo stremate.
Secondo la mia cartina, da Heidal passa una ferrovia. La intercettiamo, ma sembra che la stazione disti ancora molto. Inoltre, non sappiamo se vi passino treni diretti a Sud.
Mentre passiamo di fronte a un benzinaio, vedo un uomo fare benzina: richiamo Domcha, e lo fissiamo con insistenza. Guida un Westfalia. Gloria mi ha insegnato che si tratta del furgoncino degli hyppi! Chiunque guidi senza vergogna un simile autoveicolo non può che essere una brava persona.
I fatti ci danno ragione.
Ci porta in un punto ben frequentato, un altro ingresso di autostrada, e da quel momento iniziamo a saltare da un'auto all'altra. Prima un professore di genetica, poi un paramedico di ritorno da Bangkok... È così eccitante!
Lasciamo un autista prima di un traghetto e ne troviamo un altro all'attracco. Una rapida connessione a internet ci rassicura: abbiamo un posto dove dormire. Uno dei ragazzi che abbiamo contattato tramite Couchsurfing ha accettato la nostra richiesta, ed è disposto ad ospitarci per la notte.
Il nostro ospite si chiama Brinjar e abita a Kristiansund, in una villetta in mezzo al verde.
Una villetta circondata da un pezzo di foresta da un lato, dal mare poco distante, centinaia di fiori – decadente, sporca, ma decisamente con stile e personalità. All'arrivo, troviamo Brinjar nel panico, impegnato a pulire: vorremmo rassicurarlo, ma la casa è davvero un macello. E non parlo del drammatico bisogno di un restauro: la camera (appartenente al suo coinquilino, ovviamente assente) è un cumulo di cavi, tranci di pizza, sintetizzatori e mutande. Osservo il covo, affascinata dall'idea di trascorrervi la notte.
La cucina ospita pentole del secolo scorso, poche. Il soggiorno è composto da un bellissimo divano in pelle, due casse da discoteca e un televisore al plasma che occupa l'intera parete. C'è anche un tavolino, in legno intagliato, e un cimitero di tappi di birra.
Ma ehi, è meglio che una tenda, no?
Mentre Domcha pulisce, vado a fare la spesa al supermercato vicino. Cuciniamo e ci prepariamo ad una lunga serata telefilm, intervallata da sprazzi di conversazione (tra un episodio e l'altro).
Brinjar ha 26 anni e fa il pescatore nel Mare del Nord. Quando una nave sta per salpare, viene chiamato per fare parte dell'equipaggio: di solito, questo accade nei mesi invernali. Passa un mese a bordo e uno a terra, in compagnia del suo sintetizzatore.
Ci mostra dei video del sole di mezzanotte, di gabbiani che volano trasportati dal vento e seguono una delle tante navi su cui ha lavorato, di onde scure come la notte. Vediamo tonnellate di merluzzi e sardine venire rovesciate sui ponti e spinte nella stiva, sotto una luce che non scalda.
Gli chiedo se abbia visto spesso l'Aurora Boreale. Mi risponde che lassù, in inverno, è tutto grigio: mare e cielo sono coperti di nuvole e di una nebbia che penetra crepe e ossa.


GIORNO X – Kristiansund & l'Atlantic Road
Ci svegliamo tardi, assillate dal dubbio che dei topi abbiamo passeggiato sui nostri corpi addormentati. Brinjar dorme ancora, noi facciamo colazione con ciò che offre la sua credenza e iniziamo una lunga camminata verso il centro città.
Kristiansund sorge su quattro isole, tenute insieme da altrettanti ampi ponti. È una città a vocazione commerciale: navi enormi trasportano container colorati. Ci sono petroliere, pescherecci e navi cargo. Vanno e vengono, silenziosamente.


I sole è splendido: decidiamo di prendere il traghettino che fa la spola tra le isole. Attendiamo la barca sdraiate sull'erba, accanto all'oceano domato e all'ennesimo museo dedicato alla pesca del merluzzo.
Saltiamo da un molo all'altro. Pranziamo con waffle e fragole artiche, sotto lo sguardo divertito dei passanti.
Messo tutto insieme, è soverchiante. Bello da mozzare il fiato. Non posso davvero aver meritato tutto questo. Quindi non può essere questione di merito. I regali sono gratuiti. Questa, è una Grazia.
La felicità secondo Kristiansund.
Visitiamo la chiesa (le cui vetrate sono opera dell'onnipresente Vigeland) e attendiamo ancora una volta la barca, dondolando su un'altalena fatta da un copertone.
I cielo si rannuvola mentre torniamo indietro.
Brinjar cerca tra le mutande il suo passaporto: è stato richiamato in servizio, partirà tra un'ora.
Nell'attesa, si chiede quali vestiti portare, e ha reciso tutti i fiori del giardino (perchè vuole farli seccare in casa). Contagiate dalla fretta del padrone di casa, richiudiamo le nostre bergen.
Siamo pronte a ripartire.


Alla fermata dell'autobus non dobbiamo attendere molto: un'auto si ferma quasi subito. Questa volta è un giovane giornalista, che sta andando in ufficio. Lo preghiamo, scongiuriamo di portarci per un pezzo. Anche pochi chilometri sono abbastanza, per avvicinarci alla meta. Lui tentenna, ma accetta di portarci fuori città.
Parliamo e parliamo: io e Domcha siamo ormai un organismo ben oliato. Uno dei trucchi è non lasciare momenti morti. Il nostro autista si occupa di cronaca nera per il suo giornale di provincia: per lo più, casi di droga. Con una certa delusione, ammette di non avere molto lavoro. Cerchiamo di consolarlo (benedetta Norvegia!), sicuramente qualche turista di passaggio andrà in overdose.
Quindi, parliamo e parliamo. E alla fine lui decide di portarci fino alla fine dell'Atlantic Road – in cambio di una nostra intervista in esclusiva. Non è incredibile?
Paga il pedaggio per nostro conto. La strada è fatta di curve strette e ripide salite, tra isole e scogli. Il cielo è nuvoloso: sembra di scivolare sull'oceano.


Il nostro giornalista ci lascia in una piazzola di sosta, dopo un breve servizio fotografico.

Quante persone incredibili sto incontrando in questo viaggio! Dove sono stata fino ad ora con così tanto da vedere? E come ho potuto vivere senza mai aver assaporato questa libertà incredibile?
La foto più stilosa della storia!
Nuove automobili ci superano a grande velocità, ma il nostro morale è alle stelle. Cantiamo e balliamo accanto alla strada quasi deserta:
Hey, I've just met you
And this is crazy
But here's my thumb up
So pick me, maybe?”
E ci recupera un altro giornalista, membro attivo e convinto di un'organizzazione contro l'ingresso della Norvegia nell'Unione Europea. Discutiamo per svariati chilometri sui pro e i contro della nostra bella Europa, cioè fino all'arrivo al traghetto di Molde.
Veniamo anche a sapere la storia di un ragazzo australiano, che riuscì a auto-stoppare una nave da crociera. Siamo sinceramente ammirate, ma non crediamo sia possibile.
Poche ore dopo (cioè, dopo aver attraversato il fiordo e aver accettato un passaggio da una comitiva di norvegesi e afghanistani in vacanza), arriviamo ad Alesund.
Piantiamo la tenda nel parco cittadino, sentendoci anticonformiste e un po' criminali. Nel silenzio, trasalendo ad ogni voce, ci addormentiamo.


Continua...

martedì 6 agosto 2013

Norvegia: on the road (1)

Come Simona aveva annunciato sul suo blog qualche tempo fa (qui), la mia amica e collega Sephira ha passato gli ultimi mesi in Norvegia, grazie all'opportunità offerta dal progetto Erasmus della nostra Università.
Nelle ultime settimane di permanenza ha deciso di lanciarsi nell'avventura di un viaggio on the road in questo meraviglioso paese, che evoca sempre il ricordo di leggende lontane e antichi dei biondi e pettoruti.
Ora è di nuovo a casa sana e salva e sta meglio di tutti noi messi insieme. ;)
Qui di seguito riporto il diario che ha tenuto durante il viaggio in autostop.
Sephira ci tiene a condividere la sua esperienza con noi, ed essendo una scrittrice provetta so che rimarrete affascinati oltre che dal viaggio in sé, dalle descrizioni e dalle emozioni che vi trasmetterà.

Sarà un diario a puntate, oltre che per motivi di lunghezza - e perché ci piace la suspence - per pura tempistica di revisione.

Ora sedetevi comodi e godetevi il viaggio!

Una cartina per orientarvi meglio

PROLOGO
Un viaggio si divide in tre momenti. Non troverai un viaggio che non li abbia tutti.
Per prima cosa c'è la Preparazione.
Si tratta del tempo che passa tra il "ehi, guarda che bella foto" e il "ok, domani è il grande giorno".
Il mio caso è forse un po' più complesso del solito, perché la mia avventura si è innestata nella cornice di un'avventura più grande e incredibile, cioè il mio Erasmus a Oslo. Erasmus significa tante cose. Sfide e soddisfazioni che non avrei mai immaginato. Un Erasmus in Norvegia, poi, ha qualcosa di esotico. La Scandinavia è un altro mondo, una regione da cui ci arrivano solo leggende e pettegolezzi.
Non voglio rendere questa introduzione eccessivamente lunga, ma credo sia indispensabile spendere almeno qualche riga per descrivere questa terra, in modo che capiate per quale motivo abbia deciso di intraprendere questo viaggio nella modalità che descriverò in seguito, e con quale stato d'animo sia partita.
Norvegia è: freddo, luci del nord, meraviglia, natura, pessimo cibo, amici, studenti internazionali, barbecue, coinquilini, sogni, progetti, lavoro, costi elevatissimi, sole di mezzanotte, black metal, nostalgia di casa, distanze, rosse case di legno, fiordi, crociere alcoliche, agopuntura, troll, "it doesn't exist something like bad weather, but only bad clothes", Kings of Convenience, corsi di lingua, vichinghi, corvi e sci di fondo.
La Norvegia è una certezza. Non so come saranno le cose da ora in avanti, dove andrò, o se sarò felice. Ma guardando indietro, Oslo sarà sempre un punto saldo. Ci ho vissuto per davvero, e non cambierei nulla.
Ma torniamo al viaggio.
Per prima cosa, è necessario procurarsi dei compagni. Io ho trovato compagna e destinazione durante una noiosa lezione di norvegese, a febbraio: non avevamo mai parlato molto prima di allora, ma abbiamo scoperto di essere tra i pochi che sarebbero stati ad Oslo nel mese di luglio. Entrambe volevamo approfittarne per viaggiare, e volevamo farlo mantenendo i costi più bassi possibili.
Ci siamo ripromesse di parlarne più avanti: ci siamo incontrate di nuovo a maggio. Abbiamo aperto una cartina, stabilito che avremmo voluto muoverci per una quindicina di giorni, mangiato lasagne e chiacchierato di tutt'altro.
Un mese dopo, mentre io seguivo la routine lavoro-festa-lavoro-festa-festa-festa, la mia compagna preparava un viaggio in parallelo, veniva a vivere nella mia stanza e spariva per venti giorni.
Ci siamo incontrate di nuovo due giorni prima della data prevista per la partenza.
Dominika aveva trovato una coppia di ragazzi della Repubblica Ceca tramite un sito di car-sharing; e i due erano interessati a dividere le proprie spese di viaggio con noi, se fossimo state interessate a viaggiare insieme.
Abbiamo incontrato i due ragazzi il giorno prima di partire, di fronte ad una cena estremamente piccante e a una cartina stradale piena di post-it. Avevano viaggiato a lungo, in Vietnam, Thaiandia e molte altre regioni di Asia e Europa. Ho sempre avuto un grande rispetto per i back-packers, perciò speravo in una convivenza pacifica. Credo lo sperassimo tutti e quattro - ma loro avevano macchina e caravan, mentre io e Dom soltanto gambe e tenda. Era chiaro fin da subito che, se le cose fossero andate male, loro avrebbero avuto il coltello dalla parte del manico.
Siamo partiti da Oslo nel primo pomeriggio del 24 giugno. Le nostre bergen erano pesantissime, per lo più a causa del cibo in scatola messo sul fondo. Splendeva il sole e andava tutto bene.


GIORNO I - Da Oslo a Otta (passando per Lillehammer)
Le distanze norvegesi non sono esattamente come appaiono su una cartina. Due città vicine distano almeno tre ore di macchina: raggiungere due punti sulla costa può richiedere traghetti, ponti e un zigzagare di fiordi. Il limite di velocità in autostrada, poi, è 90km/h.
Non erano ancora passati 100 km da Oslo, e già i nostri conducenti iniziavano a innervosirsi. Sembrava che l'auto avesse dei problemi: forse una perdita di olio.
Per me è difficile capire cosa stia succedendo nell'interminabile flusso di parole in lingua ceca che i miei tre compagni di viaggio si scambiano in continuazione. Raramente vengo messa a parte di informazioni importanti in inglese, e devo ricorrere a tutte le mie conoscenze linguistiche per capire cosa sia succedendo.
Arriviamo a Lillehammer sotto una pioggia scrosciante. La città ha ospitato le olimpiadi invernali svariati anni fa, ma le sue attrattive si limitano ad una chiesa e allo sky-jump. La pioggia non aiuta.
L'ora successiva mi regala le mie prime lezioni di sopravvivenza:
1. Il mio zainetto non è impermeabile.
2. Avere i piedi bagnati è uno schifo.
3. E' buona norma avere calze di ricambio a portata di mano.
Lasciamo Lillehammer con una certa fretta, sperando che il clima sia più mite a nord.
Attraversiamo pianure allagate e fiumi in piena. La valle è splendida nei rari sprazzi di luce.
Piantiamo la nostra tenda in una piazzola di sosta, beviamo del tè e ci prepariamo per la notte. Poco dopo, un camion viene a farci compagnia: il conducente prepara la sua cena su un fornito da campo situato nel retro del veicolo.


Parliamo un poco: ci dice che la politica della sua compagnia è di non accettare autostoppisti a bordo. Lui stesso ammette di aver avuto dei problemi aiutando persone rivelatesi poco raccomandabili.
La discussione ci lascia pensierose. Tutti i nostri piani si basano sulla fiducia, tra noi e verso gli altri. Se viene meno quella, siamo del tutto in balia della corrente. Siamo solo due ragazze sperdute tra le montagne della Norvegia, in una tenda accanto alla strada.


GIORNO II - Rondane Nasjonal Park
Partiamo da Otta di buon mattino, sotto un sole che ci riempie di speranze mal riposte. Abbandonati auto e caravan in una piazzola di sosta, ci apprestiamo ad affrontare le montagne del Parco Nazionale del Rondane. Ciascuno procede con il proprio passo - che significa che sono l'ultima della fila.


La strada pianeggiante costeggia un fiume e rocce argillose, la strada deserta di fronte e dietro di noi. Dopo un'ora e mezza raggiungiamo una decina di casette, in riva a un lago trasparente. Il nome del paese è Rondvassbu (che significa qualcosa come “Paesino Di Tre Case nel Parco del Rondane”). Calma, pace, vento che ulula tra le catene di monti e acqua che scroscia in silenzio. Una breve pausa su panchine di legno, mangiando frutta secca e guardando il cielo cambiare colore, e poi di nuovo in marcia.



Io e Dom abbiamo deciso di affrontare una camminata di cinque ore, raggiungendo il villaggio di Misuseren (al di fuori del parco).
La prima parte del sentiero, però, è allagata. Anche qui ha piovuto a lungo: siamo costrette ad una breve deviazione su rocce aguzze, in salita fino a raggiungere un poderoso burrone scavato da un fiume sottile. Dando le spalle a Rondvassbu, il paesaggio è già cambiato. Ci sono rocce bianche ricoperte di licheni gialli, rametti di cespugli e piccoli corsi d'acqua. A perdita d'occhio.
Iniziamo a camminare. Ovviamente rimango indietro, incapace di sostenere il tempo di Dominika. Ma, in qualche modo, mi rassicura sapere di averla lì di fronte a me. Dopotutto, intorno non c'è niente. Siamo i soli esseri umani su questa terra.


In cielo si rincorrono nuvole bianche e nuvole nere, mentre noi continuiamo a camminare. Da un segno all'altro, con una fiducia che sembra follia, nell'altopiano dove tutto è uguale. Passano le ore: nel paesaggio lunare variano solo le ombre.
Quando inizia a piovere, ogni roccia diventa più minacciosa. I miei scarponcini perdono la presa sul terreno, facendomi scivolare sul muschio e sprofondare in anfratti invisibili. Stanchezza e sfiducia.
Fino a che finalmente non raggiungiamo una piccola hytta (baita) di pietra e legno, mascherata dalla montagna.



Pranziamo al coperto, meravigliandoci della capanna e asciugandoci gli abiti. Mangio un uovo sodo seduta su una panchina di pietra, dietro l'uscio. La porta socchiusa mi ripara dal vento, e il sole fa capolino per scaldare anima e viso. Il cielo non ha confini, la terra è deserta. Sembrano essere stati creati affinchè li vedessi ora.
Ma è già tempo di rimetterci in marcia.
La pioggia riprende subito dopo.
Sassi appuntiti, licheni molli e pioggia battente, che trasforma il sentiero in un acquitrino impraticabile. Fino a che il sentiero stesso non sparisce, lasciandoci sole, fradice, stanche. Una sgradevole voce nella mia testa mi ricorda che non c'è campo. Non ci sono neppure punti di riferimento. Ma deve pur esserci una fine, no?
Continuiamo a camminare. Attraversiamo paludi, cespugli ispidi, scivoliamo, affondiamo nel fango. I ruscelli si moltiplicano, i miei piedi sono fradici negli scarponcini.
Guado un ruscello da scalza. L'acqua è più calda di quanto credessi, forse perché i miei piedi sono bollenti. Una decina di minuti di sole mi permettono di tagliare e attaccare cerotti su tutte le mie vesciche. Mi sento un po' una scout, un po' Indiana Jones e un po' squallida, perché da Dom non esce un lamento.
Ritroviamo la strada, anche se non è segnalata.
Alzo gli occhi, e il più incredibile arcobaleno che abbia mai visto mi mozza il fiato. Grido alla mia compagna di fermarsi e voltarsi indietro. L'arcobaleno è dentro una nuvola, e parte dal centro della montagna. Un semi-arco lanciato verso il cielo. Se ne avessi il tempo, mi lancerei alla ricerca della pentola d'oro. Ma la visione sparisce poco dopo, lasciandoci con qualche fotografia, più forti e fiduciose.


La vegetazione cambia all'improvviso. Compaiono passerelle in legno sulle aree di una foresta di betulle allagata.
Misuseren ci aspetta con il tuono delle sue cascate, a sette ore dalla nostra partenza.
Siamo esauste. I nostri guidatori ci aspettano a valle già da tre ore.
Jan ci lascia in un nuovo paese, di cui non ho nemmeno la forza di chiedere il nome.
Piantiamo la nostra tenda nel giardino della banca, facciamo una doccia nei bagni pubblici e mangiamo noodles istantanei nella tenda. Non ricordo nemmeno di essere andata a dormire, ma a un certo punto mi sono svegliata.


GIORNO III – Da Heidal ad Å (passando per Trondheim e Bodø)
Mi sono svegliata, e mi trovavo a Heidal. Uno dei tanti paesi minuscoli di cui è costellata la Norvegia, con la sua chiesa di legno, le colline verdeggianti abitate da mucche e pecore e una calma che non troveresti altrove.
La macchina è stata riparata mentre dormivamo. I nostri compagni sembrano avere fretta.
Se loro hanno fretta, abbiamo tutti fretta.
Sei ore a tappe forzate e siamo a Trondheim. Ci aspetta Kristyna, con una doccia, internet, tè e pasticcini. È una vecchia compagna di scuola di Dominika, e con lei condivide una gentilezza e un calore disarmanti. Vorremmo fermarci – ma dobbiamo già ripartire.
Verso Nord. Sempre verso Nord.
Ci fermiamo solo per fare benzina. Ci lasciamo dietro la notte, il tramonto e il sole. Attraversiamo il Circolo Polare Artico alle 3 am. Poco prima, incrociamo un ragazzo che fa jogging con la musica nelle orecchie; poco dopo, un'alce enorme,
Jan e Dana si danno il cambio alla guida per tutta la notte – anche se è difficile parlare di notte in questo mondo di luce soffusa e luce intensa. Per qualche motivo sembra che i nostri rapporti si siano raffreddati. Forse, l'aver lasciato il caravan a Trondheim li fa sentire più vulnerabili?
Quale che sia il motivo, sia io che Dom non vediamo l'ora di esserne indipendenti. Hanno anche smesso di offrirci l'acqua calda, cosa che ha reso i nostri pasti ancora più poveri.
Ci imbarchiamo alle 5 am. Mi addormento subito, cullata dal rollare del traghetto.
Quattro ore più tardi siamo ad Å. Siamo sulle Isole Lofoten.
Se me l'avessero detto un anno fa, non l'avrei creduto possibile. A dire il vero, non avrei nemmeno saputo indicarle sulla cartina.
Ma il viaggio è fatto anche di questo. Crescita e meraviglia. Un'alba trasparente come vetro.


GIORNO IV - Å (Lofoten Islands)
Å è l'ultima lettera dell'alfabeto norvegese, e l'ultima località dell'autostrada E10, che abbiamo percorso in tutta la sua lunghezza. Gli abitanti dicono che con Å finisce il mondo.
Anche se so che non è così, perchè sono stata ancora più a Nord (a Kirkenes e a Tromso), qui c'è davvero qualcosa che sa di eternità.
Il primo insediamento è preistorico (francesi a caccia di renne vissute 12 000 anni or sono), e nei secoli si sono succeduti popoli e abitanti. Sami, norvegesi, persino profughi italiani di una nave veneta (grazie a cui ancora oggi mangiamo stoccafisso sotto Natale).
Qui, il sistema di classi e aristocrazia è ancora vivo sotto le pelle: la vecchia nobiltà, arcigna e altezzosa, guarda i turisti entrare e uscire dai propri – espropriati – storici possedimenti.
Visitiamo una di queste strutture, convertita in museo e dedicato alla vita dei pescatori e ai prodotti della lavorazione del merluzzo.
Sembra che l'olio di fegato di merluzzo sia una panacea: usato per combattere il rachitismo, contro l'insorgere di malattie come l'Alzhaimer, ricco di vitamine A,B e D. Ma anche utilizzato per impermeabilizzare gli stivali, oppure, ridotto a polvere finissima, per dipingere i muri delle case di bianco e rosso.
In effetti, Å è tutta rossa e di legno, costruita su palafitte. L'odore di merluzzo (“è l'odore del denaro” - dicono qui, - “e il denaro non puzza mai”) è onnipresente, come pure le teste mozzate del pesce che, appeso e secco, resiste alle insidie di uccelli e insetti.

LORO ti stanno guardando.

Il sole colore acqua e montagne. L'aria è chiara e il vento fresco fa leggermente rabbrividire. Le montagne sembrano così vicine!
Così verdi e segnate dal passaggio del ghiaccio, sembrano vecchie cicatrici su un corpo anziano e ancora prestante.
La costa è il regno incontrastato dei gabbiani, ma oltre attende in agguato il terribile mælstrøm, il gorgo che inghiotte insieme pesci, navi e storie.


I marinai ne avevano tante. Per esempio, c'è tutta la faccenda del “crown cod”, il merluzzo con la testa tonda. Catturarlo porta fortuna, perchè lo segue da presso il presso il resto della plebe marina. E, una volta secco, appeso alla trave del soffitto, è in grado di prevedere se ci sarà bel tempo. A dispetto delle mie brillanti supposizioni sul funzionamento di tale marchingegno, mi viene comunicato che si tratta di un semplice fenomeno fisico: la corda si allenta o tende con l'umidità dell'aria, facendo girare il merluzzo da una parte o dall'altra.
E ancora: come decidere dove pescare?
Niente di meglio di una bella ciotola di latta, in cui disegnare tanti spicchi quante sono le sezioni di mare. Versatavi dell'acqua, si raggiungerà con fiducia il luogo di formazione delle bolle.
Weronika, una ragazza polacca, è la nostra guida nel museo. Al termine del giro, rimane a lungo a parlare con noi: discutiamo di passato e presente, delle Lofoten e di quel miracolo tutto umano che ci permette di comunicare e comprenderci pur venendo da luoghi così lontani. Ci invita a partecipare ad un'escursione serale a caccia del sole di mezzanotte, ma la stanchezza ci spinge a rifiutare.
Trascorriamo invece un delizioso pomeriggio sdraiate sul versante ovest della montagna, guardando il lago e chiacchierando.


La sera piantiamo la tenda di fronte all'oceano, nel verde di uno strapiombo, tra rocce levigate da vento e secoli. Il sole è ancora alto: facciamo un'ultima scorribanda in paese, alla ricerca di un tè caldo. Mentre camminiamo con le nostre tazze in mano, incuranti degli sguardi perplessi dei turisti, incontriamo un gruppo di pescatori. Sembrano entusiasti: si fanno fotografare, e ci invitano a sbudellare una delle creature strappate agli abissi.

Io, Domcha e il pesce. Zoom sul terrore nei nostri occhi.

Decliniamo gentilmente e ce la diamo a gambe.
Musica e una luce tenue che non ferisce gli occhi, riflessa dall'oceano.
É trascorsa da tempo la mezzanotte, ma nel paradiso è sempre giorno.


GIORNO V – Reine, Ramberg, Henningsvær, Kamelvåg Non necessariamente in quest'ordine (Lofoten Islands).
Meraviglioso risveglio nel vento salmastro, con la tenda inondata di luce e l'erba agitata dalla brezza. Siamo pronte a ripartire quasi troppo in fretta... E infatti aspettiamo parecchio i nostri compagni di viaggio, che hanno trascorso la notte nel parcheggio (il motivo è, a distanza di mesi,
ancora inspiegabile).
Lasciamo Å e procediamo per circa mezz'ora verso Est. All'imbocco di una galleria, una strada asfaltata si trasforma in sentiero, e sale tra i tralicci dell'alta tensione. Sparisce quasi subito nella vegetazione, ma noi sappiamo che conduce in alto, fino alla vetta.
Decisa la meta, ci incamminiamo – come sempre, rimango subito indietro (questo diario non fa particolarmente onore alle mie doti atletiche, vero?).
Così, ancora una volta, mi ritrovo sola sul sentiero polveroso, con un sole che batte impietoso e il bisogno di fermarmi ogni due metri a riprendere fiato. La salita è ripida e, me ne rendo conto troppo tardi, pericolosa.
In alcuni passaggi sono costretta a procedere a tentoni, schiacciandomi contro il versante della montagna. Talvolta è necessario arrampicarsi, e in alcuni punti delle corde permettono di salire più agevolmente. Cerco di guardare solo in alto, perché guardando indietro mi sono sentita mancare. Vertigini. Un pessimo momento per scoprire di avere paura delle altezze. Mi vedo già a valle in una pozza di sangue e ossa scomposte, sfracellata nel tentare la discesa.
Sul sentiero stretto, non ci sono posti in cui fermarsi.
Posso solo continuare a salire.
Una dozzina di metri sopra di me c'è un altro ragazzo: superarlo diventa l'obbiettivo della mia esistenza. Sono abbastanza sicura che, se cadessi, il suo strato d'adipe potrebbe salvarmi la vita.
Quindi saliamo, e saliamo. Ci aspettiamo a vicenda, di comune accordo ma senza dirci nulla.
E quando alla fine non ci speravo più, mi sento chiamare dalla vetta: è Dominika, che fa lo stambecco. Ma con quale energia?


D'accordo, la vista ripaga di ogni fatica. Anche se ho creduto davvero che sarei morta. Anche se, nel tempo che mi ci è voluto, il cielo si è rannuvolato. Chissenefrega.
Soffia un piacevole vento freddo, tra le montagne aguzze e il mare dal colore impossibile.
E sono viva per raccontarlo. La discesa, dopotutto, non mi è stata fatale.

Chi è questa gnocca? Eh? Eh?!
Torniamo in macchina quasi volando. Una sosta di neanche mezz'ora a Reine, splendida dalla costa come dall'alto.


I nostri conducenti corrono.
Superiamo spiagge candide dall'acqua gelida, ruscelli che dalla montagna innevata entrano dell'oceano. Una lunga strada panoramica unisce tutte le isole.

Benvenuti nell'Artico. Non ci fareste un tuffo?
Traghetto verso la terraferma.
Questo viaggio è stato troppo breve. C'è tanto altro da vedere!
Ma, ormai, il nostro timone è rivolto a Sud.

Ha det bra, Lofoten!

GIORNO VI – Arctic Circle, 66° 33'
Ho attraversato il Circolo Polare Artico! E, questa volta, l'ho fatto da sveglia.
Si trova in un posto ventoso, dalle montagne innevate.
Mi sono sentita un'esploratrice, e così libera!


Ho incontrato i primi italiani dall'inizio del nostro viaggio, e una coppia di simpaticissimi e arzilli anziani tedeschi. Giusto il tempo per le foto di rito, i souvenir e i cumuli vichinghi. Siamo di nuovo in cammino.
Attraversiamo Mo i Rana, città a vocazione industriale, Mosjøen, cittadina dalle abitazioni caratteristiche. Visitiamo Steinkjer, alla vana ricerca di una cascata. Troviamo invece tumuli, pietre sacrificali e lapidi di epoca vichinga a Hammer.
Nel tardo pomeriggio siamo di nuovo a Trondheim.
Tiriamo un sospiro di sollievo: abbiamo lasciato la coppia con un certo astio, per motivi pecuniari. La conversazione sembrava destinata a finire nel sangue, ma in qualche modo ce la caviamo.
Kristyne ci consola con una cena calda, una doccia e la lavatrice.
Al diavolo Jan e Dana.
Ci aspettano ancora centinaia di chilometri. E siamo libere di scegliere come affrontarli.



Continua...

mercoledì 17 luglio 2013

Speechless Magazine (3)

Come ogni volta, anche se questa volta un po' in ritardo, vi comunico l'uscita del terzo numero della rivista online Speechless Magazine.
Qui trovate la versione leggibile direttamente online: Numero 3

Prometto che presto tornerò a scrivere anche di altro ;)
Bye!

venerdì 3 maggio 2013

Maccheddiavolo?

Sono fuori dal giro delle scuole elementari da quasi 30 anni, per cui chiedo a voi giovani: insegnano ancora ortografia e grammatica?
Mi è venuto il dubbio leggendo qua e là in internet frasi e commenti di persone che alle elementari non avrebbero dovuto essere bocciate, ma sterminate! Ho letto cose che nemmeno un macaco sbronzo avrebbe scritto peggio.
Vedo una bella immagine su un sito di fotografie naturalistiche, leggo nei commenti "sensazzionale" e il mio cervello rabbrividisce come a sentire un'unghia sulla lavagna (quella lavagna che a scuola certa gente non guardava con attenzione... anche qui ci vuole una sola Z, ignoranti!).
Un conto sono i refusi, cioè gli errori di battitura dovuti alla fretta, ma scambiare accenti con apostrofi non è uno sbaglio perchè sulla tastiera sono ben lontani, per questo posso perdonare un + al posto della "è" che sono vicini e può scappare il dito, come due lettere invertite in una parola, ma, vi prego, non scrivete un pò al posto di un po' che mi viene l'ulcera! 
Per inserire le emoticon usate perfettamente combinazioni di tasti così complicate che sembrano studiate dalla NASA e poi dimenticate (ma com'è possibile???) la H coniugando il verbo avere? Criminali!
Scrivere su facebook "i politici c'è l'anno messo nel culo" non è un insulto ai politici, è un insulto alla vostra maestra, ho spiaccicato zanzare che si esprimevano meglio!
Non sto rivolgendo la mia sfuriata a quei vecchietti che han fatto la guerra o giù di lì perchè a quei tempi l'istruzione era ovviamente l'ultimo dei problemi, mi riferisco invece a gente che sfoggia il nuovo smartphone e poi lo usa per scrivere come un analfabeta.
Come fate a capire l'ironia negli strafalcioni studiati per far ridere quando siete convinti che il "Vadi pure" di Fantozzi sia corretto?
Io sono la regina dei refusi, ma se mi viene un dubbio di grammatica o d'ortografia (non è che ho tutta la scienza in testa) prima di scrivere boiate lo risolvo e se non avete più in casa un vocabolario perchè antiquato, sappiate che ce ne sono anche sul vostro amato internet e probabilmente esiste una maledetta app che corregge l'italiano per i cretini.
Sì, ci sono espressioni colloquiali, dialettali, slang che si possono usare tranquillamente, ma ci sono regole che non possono essere infrante dopo la scuola dell'obbligo, sarebbe come dimenticare cosa significa il cartello di divieto di sosta solo perchè è passato tanto tempo dalla scuola guida. Non scherziamo!
Leggete qualche libro in più o almeno un giornale, va bene anche una rivista di moda, ma leggete, per favore, e imparerete a comunicare i vostri pensieri senza che la forma orrenda distragga dalla sostanza che forse (ma forse) potrebbe essere interessante.
Au revoir.